lunedì 24 dicembre 2012

Intervista esclusiva a Daniela Poggi. "La vita è un sogno continuo"





Purtroppo non ho il piacere di guardarla nei suoi ardenti occhi castani, mi devo accontentare di un’intervista telefonica. Daniela Poggi è la voce che vorresti sentire quando qualcosa non va: calda e avvolgente per coccolarti, ma allo stesso tempo decisa per spronarti a riprenderti. Comunque parlare con lei è un vero piacere: oltre alla straordinaria proprietà di linguaggio, Daniela ride e ride con te. 

Attualmente l’attrice sta lavorando molto a teatro: è in tournée con lo spettacolo Tutto per bene di Pirandello con la regia di Gabriele Lavia, dove interpreta la Barbetti uno dei personaggi chiave della commedia pirandelliana, suocera del protagonista Martino Lori. 

La pièce fino al 2 dicembre sarà al Teatro Carignano di Torino per poi proseguire a Bergamo, Genova e Roma. 
Il 28 e 29 gennaio sarà al Teatro Ghione di Roma con Eda, una donna del 900, che porterà poi a Vigevano. Proseguirà a febbraio con Io madre di mia madre e il 28 marzo ancora al Ghione con L’amore impaziente

La Voce ve l’ha voluta raccontare così…. 

Al momento è in tournée con lo spettacolo Tutto per bene di Pirandello. Che tipo di personaggio interpreta?
Il personaggio si chiama la Barbetti anche se in realtà il nome non viene mai nominato in scena. È una donna spregiudicata, vedova due volte e nonna della giovane Palma Lori nonché madre della donna che ha sposato Martino Lori, cioè Gabriele Lavia. 
È sofisticata nonostante viva in una Perugia provinciale che le sta molto stretta però nella sua altezzosità è abbastanza simpatica, seppur immorale. È libera, non usa maschere né mezzi termini, è molto diretta dice quello che pensa, ed è l’unica che non cade nel tranello degli equivoci, delle meschinità, degli opportunismi. 
Va dove le interessa andare, lasciando perdere tutto il resto.

Com’è lavorare con un artista poliedrico come Gabriele Lavia?
È una bellissima esperienza perché è uno straordinario interprete, un abilissimo regista, un uomo di grandissima cultura quindi è davvero una gioia poter apprendere il suo percorso teatrale. È un uomo generoso: ti regala il suo sapere. Come regista è di grandissima disciplina e pulizia scenica, ha voluto regia rigorosa e perfetta, quasi esageratamente. Bada ai dettagli, anche minimi, e in un momento in cui il teatro ha perso rigore e pulizia e tutto è lasciato in balia di interpretazioni varie e movimenti magari non richiesti dal personaggio, mi sembra importante. Il merito viene riconosciuto dal pubblico che è venuto a vederci.

Sta lavorando a tre monologhi incentrati sul rapporto delle donne con amore, fede e politica. Come è cambiato l’universo femminile in relazione a ciascuno di questi tre aspetti della vita?
Sono cambiate molto. Sotto profilo dell’amore faccio un monologo nello spettacolo Io madre di mia madre che parla del rapporto tra una figlia e sua madre che si ammala di Alzheimer. Nel mio excursus teatrale, ho incontrato molti figli diventati madri e padri dei loro genitori, però è anche vero che c’è una grande realtà familiare e femminile che non pensa minimamente di mettere a disposizione il proprio tempo e il proprio spazio per dedicare attenzione, amore e cure nei confronti del genitore. 
È anche vero che se questo avviene in età più adulta c’è maggiore coscienza e consapevolezza, mentre in età giovanile predomina la paura. La donna oggi ha messo al centro della propria esistenza se stessa e le ambizioni lavorative, spesso trascurando il rapporto con i figli, i quali vengono affidati a baby sitter, e mettendo in secondo piano il rapporto con il compagno o marito. Penso che la femminilità, la sensibilità, la grazia e la fragilità sono caratteristiche che vanno recuperate, perché è vero che siamo grandi lavoratrici, ma è anche vero che il percorso del lavoro, rispetto a quello di rimanere a casa a fare le mogli e le madri l’abbiamo scelto noi. Quindi, così come siamo state capaci di raggiungere i nostri obiettivi lavorativi, dobbiamo mantenere anche quello che è sempre stato il ruolo della donna. Non voglio tuttavia con queste parole giudicare nessuno.

Per ciò che riguarda la fede è un momento difficile, c’è molta dispersione. Mancano i riferimenti, le molte filosofie religiose piuttosto che sette o gruppi di pensiero rischiano di confondere. C’è poco coraggio di ammettere il proprio credo, c’è paura e anche molta disattenzione e superficialità. La vita è spesso di corsa, ma è importante sapersi fermare e pregare. Io sono credente, praticante seppur con tutti i miei limiti, i miei dubbi, le mie rabbie, le contrapposizioni con ciò che la Chiesa impone. Ma ho scelto di fare questo percorso e provo la gioia quando sento Messa.

Il suo rapporto con la fede si è palesato maggiormente con la sua interpretazione di Suor Enrichetta Alfieri?
Il lavoro su Suor Enrichetta mi ha dato una grande gioia. Una donna che è stata coraggiosa, grande, capace, sorridente e generosa di animo, che aveva una determinazione stupefacente per affrontare il nemico ovvero i nazisti, i carcerieri, ma allo stesso tempo sapeva ammettere le sue paure. La bellezza di Suon Enrichetta, e la straordinarietà dell’essere umano, sta nel porsi in maniera umile di fronte alle proprie paure e alle proprie debolezze. Questo ci aiuta a diventare forti. Sono felice di averla interpretata, tra l’altro ha fatto il dono meraviglioso di una gravidanza a un’amica che lavorava con noi sul set, una specie di miracolo! 

Per quanto riguarda invece la politica? 

Se paragoniamo alcune presenze femminili del governo scorso della maggioranza a personaggi come la mia Eda Bussolari, a donne come Tina Anselmi o Nilde Jotti… Ci si accappona la pelle! 


Per quanto riguarda proprio Eda, una donna del 900 come si è preparata per affrontare un personaggio d’altri tempi, che vive tra le due guerre in una borgata di campagna? 

Per me è stata una grande gioia poterla conoscere personalmente e guardarla negli occhi perché mi ha dato una forza incredibile. Quando poi ho cominciato a narrare la sua storia nel suo passato presente e futuro, sempre riferito a quell’epoca, per me è stato molto più facile. Non ho dovuto immaginarmi una donna, ma l’ho vista e mi sono calata nella sua forza d’animo, nella sua ilarità e capacità di essere sempre così spigliata. E chiaramente mi ha affascinata. Non è così difficile per noi attori entrare nei personaggi, anche se sono appartenuti a epoche diverse dalle nostre, poiché è possibile leggere, studiare e documentarsi. 
Io non divento Eda Bussolari, ma sono la narratrice, c’è quindi una sorta di distacco. Ci siamo posti il problema al momento di montare lo spettacolo su come rappresentare Eda in prima persona, ma parlandone con il regista abbiamo optato per la terza persona. 


Lei è diventata nota al grande pubblico grazie a “Chi l’ha visto?”. Cosa le ha lasciato questa esperienza? 

Già facevo parecchie fiction e “Incantesimo” mi ha dato molta popolarità. “Chi l’ha visto?” mi ha dato un ulteriore riconoscimento personale nettamente superiore rispetto a quello che mi aveva dato il lavoro di attrice. È stata un’esperienza straordinaria perché umana, prima ancora che professionale. Intanto sostenere tutte le settimane una diretta televisiva mette il panico, soprattutto perché poi bisogna affrontare telefonate particolari, drammatiche dove c’è un dolore estremo: sentirlo e gestirlo non è facile. Mi ha fatto capire qual è la realtà della vita vera. 
Oggi non più, visto che siamo i precari per eccellenza, ma una volta quando per noi attori c’era più lavoro e si passava da un set all’altro era facile perdere di vista i problemi veri della vita, e invece questa trasmissione ti mette di fronte alla verità della gente e soprattutto da quella parte di ceto sociale emarginata, che non ha possibilità di parlare, vittima di ingiustizie e “Chi l’ha visto?” è stata una trasmissione che ha aiutato tantissimo perché a volte è andata anche contro la magistratura, i pregiudizi, certe espressioni medico-scientifiche facendo riaprire i casi per poi risolverli. 


Teatro, televisione, ma anche Ambasciatrice Unicef. Quando è iniziato il suo impegno nel sociale?
Dal 2001, quando mi hanno insignita del ruolo di Ambasciatrice. L’ho sempre fatto, un po’ l’educazione ricevuta e un po’ il mio carattere. Sono sempre stata attenta ai problema degli altri, mi reputo una persona che guarda sempre negli occhi, che sa ascoltare, che sa guardarsi intorno e laddove potevo ho sempre aiutato. Sono piccola, non posso fare miracoli e non ho capitale economico che mi permetta di aprire ospedali o scuole, però sono sempre stata vicino a chi aveva bisogno e loro probabilmente se ne sono accorti. Fare l’Ambasciatrice dell’Unicef non significa solo dare la propria immagine, è anche e soprattutto far capire qual è il tuo stile di vita che deve essere coerente con quello dell’associazione altrimenti non ha senso, è solo un mezzo di pubblicità.

Daniela Poggi che sogni ha ancora nel cassetto?
Non ci sono abbastanza cassetti per contenerli tutti! Ho tanti sogni, la vita è un sogno continuo: ci si addormenta desiderando, ci si risveglia desiderando e si percorre la vita continuando a desiderare. Io spero sempre di fare cose migliori, sotto il profilo professionale mi auguro che il mio lavoro mi permetta di dedicarmi sempre più agli altri e il più grande sogno della mia vita è che ci sia un mondo migliore, che avvenga quel famoso miracolo con la speranza che questo 21 dicembre invece della fine del mondo ci si riveli un’umanità che metta fine a quest’odio, a questa violenza, a queste guerre, a questa fame e a questa povertà. 

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